il brigante di chiaiano



Da fanciullino nelle passeggiate, che facevamo nelle calde giornate estive,, durante l’estate chiaianese, insieme ai miei coetanei negli anni del dopoguerra, guidate dalle assistenti, (giovanette reclutate tra le giovani dell’Associazione cattolica locale, le signorine, Melina Pennino e Teresenella ‘e ncopp’ ‘o barone - alias Maione Teresa), sotto l’egida delle colonie estive per i ragazzi, (indette dalla parrocchia di San Nicola di Bari a Polvica e finanziate con i soldi, che attraverso la Pontificia Assistenza e, per conto dell’ERP - Ente della Ricostruzione Europea, furono stanziati dal Piano Marshal americano), per far trascorrere il periodo estivo ai molti ragazzi, che altrimenti sarebbero vissuti per strada, come tanti Lazzari. 
La maggior parte della giornata della cosiddetta colonia estiva si trascorreva negli spazi contigui della chiesa o facendo nella mattinata lunghe passeggiate nella vicina Selva o meglio (dint’ ‘a Severa) percorrendo Via Croce, 
Via Margherita, lo spiazzale della Saurella e poi scendevamo ancora per la discesa della terricciolla ‘e Zi-Matalena, costeggiando la grande Cava profonda circa 100 metri, (o’ Monte de’ cane), un baratro che dai bordo non si vedeva il fondo.
La denominazione di monte era l’antico nome delle cave, (da cui si estraeva il tufo) e dopo aver costeggiato il baratro, ci immettevamo nella strada sterrata, detta (Mieze ‘e tre vie), ombrosa per alcuni tratti per i lunghi rami degli alberi di castagno, che la coprivano, in modo da farla apparire quasi un tunnel. Ricordo che spesso ci fermavamo nei pressi del (’O Monte do’ Brigante), anch’essa una grande Cava, che a noi ragazzi appariva come una grossa Spelonca, perforata nella roccia della collinetta sovrastante. A quei tempi le cave si facevano al chiuso, dove si estraevano pietre di tufo giallo, e solitamente poi erano utilizzate per rifugi durante i mesi invernali, quando si verificavano abbondanti piogge e per l’altro validissimo motivo, quello di lasciare il bosco circostante rigoglioso di castagneti e per far continuare alla flora e alla fauna locale il loro ciclo vitale.
Quella grossa spelonca c’era indicata come “la Grotta del Brigante”, qualcuno per sentito dire, affermava che ci avesse soggiornato il brigante Musolino, e, noi ragazzi lo confondevamo con Mussolini, il dittatore fascista, per il fatto che ancora se ne sentiva parlare nelle nostre famiglie, si era appena negli anni cinquanta.
Solo ora, dopo aver raggiunto sessanta e più anni, sono venuto a conoscenza di chi veramente c’è vissuto in quel nascosto ricovero, divenuto famoso negli anni, appena, dopo l’unità d’Italia, poiché ospitò i patrioti del disciolto esercito borbonico, (i cosiddetti Briganti) che lì trovarono rifugio sottraendosi alle rappresaglie sabaude, indette dal generale Cialdini per volere dell’usurpatore Piemontese, il savoiardo Vittorio Emanuele II-
Chi  era in verità il Brigante della Selva di Chiaiano?
ll brigante della Selva di Chiaiano, è subito svelato :
Era un certo, Alfonso Cerullo, il capo banda di un manipolo di uomini, circa una cinquantina ed in seguito un centinaio, ex soldati del disciolto esercito borbonico, che, non volendo sottostare alle vessatorie condizioni di resa di Gaeta, (siglate da Re delle Due Sicilie, Francesco II, alias Francischiello ed il Generale Cialdini, per conto del re sabaudo, Vittorio Emanuele II), si dettero alla macchia, altrimenti sarebbero stati rinchiusi nelle galere, sparse in tutto il territorio Italiano, specie in quello piemontese, che erano dei veri lager, come quelli, che divennero famosi, le famigerate “Finestrelle”, dove, che, se non si faceva atto di sottomissione alla sovranità ed alla sudditanza alla casa Savoia, si veniva massacrati senza pietà.

Alfonso Cerullo, nacque  nelle fertili campagne di Marano di Napoli nel 1837 da padre contadino, Cerullo Salvatore, e da Angelamaria Napolano, casalinga.
Si arruolò giovanissimo nella Reale Gendarmeria Borbonica a cavallo, che aveva compiti d'ordine pubblico, forza armata della giustizia e vigilanza e sicurezza del territorio, ed all’età di ventisette anni rivestì il grado di caporale, che assolse con perizia e carisma, tanto che dopo la capitolazione di Gaeta, con il suo reparto, che era di stanza nella regione Abruzzi, ripiegò a Cisterna e da lì si diede alla macchia, non volendo sfruttare l’opportunità avuta di continuare il servizio militare nell’esercito di un nuovo Sovrano, di un altro Re.
Tornato nella sua Marano e conosciuto un sostenitore del deposto Regime, un certo Macedonio di Maria, che esercitava il mestiere di sarto e che asseriva che Re, Francesco II, sarebbe ritornato presto al suo posto, si fece convincere da quest’ultimo ad organizzare una rivolta per resistere all’esercito occupante piemontese.
Una prima banda di circa venti uomini a cavallo, il Cerullo la raggruppò fra gli ex soldati sbandati del circondario dei casali del Nord di Napoli, rimasti fedeli al loro giuramento e nostalgici del regno borbonico, e con essa iniziò a depredare i posti della guardia nazionale di Marianella, di Polvica, di Mugnano, prendendo i fucili e abbattendo lo stemma dei Savoia e distruggendo i ritratti di Vittorio Emanuele II e di Garibaldi.
Per rendere più clamorose le sue sortite, obbligava agli uomini di guardia dei presidi, che sorprendeva di gridare :“ Viva Francesco II e Maria Sofia, i veri reali di Napoli”
Questi inaspettati attacchi alle caserme ed ai presidi del disciolto Reale Corpo dei Carabinieri, che nel 24 gennaio del 1861 si trasformò in Arma dei Carabinieri, dislocati nel territorio, resero necessaria l’istituzione di un tour de fource, di più uomini, costituito dalla Guardia Nazionale in collaborazione con reparti speciali di Bersaglieri e di soldati della Guardia Mobile per setacciare il Nord di Napoli, operava la banda Cerullo.

Più che un Brigante, il nostro Alfonso Cerullo, era un autentico partigiano borbonico, tanto che osò sfidare l’esercito piemontese con un manipolo di compagni, innalzando su un albero nel bosco della collina dell’Eremo Camaldolese il Vessillo Gigliato dell’antico Regno, donatogli da alcuni affiliati, che l’avevano requisito ad abili tessitrici mugnanesi, e tanto era grande, che era ben visibile dai paesi sottostanti della collina.
Terminate le proficue incursioni nelle varie masserie della zona, si rifugiava nella Selva di Chiaiano, nella famosa Grotta del Brigante, antica cava ben nascosta dalla folta vegetazione, per sfuggire ad un’eventuale cattura e da cui poi ripartiva per altre e nuove scorribande per procacciarsi viveri e vettovagliamenti per la sua banda.
La banda del Cerullo era anche in contatto con altri gruppi di briganti, anch’essi operanti nell’entroterra della Provincia di Napoli, come quella di Crescenzo de Matteo nel aversano, la banda di Salvatore Reppe nella zona di Qualiano Quarto, la banda di Salvatore D’Alterio detto “‘o Squarcione” in quella di Giugliano e tanti altri gruppi e tutti insieme formavano il comitato insurrezionale dell’area nord di Napoli, che aveva come disegno strategico militare, il ritorno, appena possibile, del Re Borbone.
Queste bande Partigiane Borboniche divennero padroni incontrastati del territorio e spaziavano dai Camaldoli al Lago di Patria fino a Soccavo e Pianura e per il numero sempre crescente d'esse, costrinsero a Vittorio Emanuele II, ad ordinare al Generale Cialdini di procedere ad una massiccia repressione.
Si misero taglie sulla testa dei più noti capibanda e così iniziò una vera caccia ai cosiddetti briganti di casa nostra. Scesero in campo circa cinquemila uomini armati per stanarli oltre alle forze locali ed ai carabinieri.
Il nostro eroe, Alfonso Cerullo, fu preso nei pressi della Taverna del Portone, vicino al posto di Dogana al Furlone sulla Strada Santa Maria a Cubito, tradito da un certo Lucchesi Michele, la sera del 28 novembre del 1864.
Interrogato l’indomani, il 29 novembre 1864, dall’Ispettore Federico Sbarri della Questura di Napoli, com'è riportato dallo storico maranese Barberi nel suo libro, (il Cerullo “giustificò la sua ribellione, non volendo sottostare al nuovo regime e dichiarò che non si era mai macchiato né lui, né i componenti della sua banda, di nessun crimine, specie ,quello addebitatogli, dell’assassinio del carabiniere Maurizio Gorelli, avvenuto il 16 maggio 1863, che gli era attribuito, dichiarando altre sì che non si era mai scontrato con l’arma, anzi la rispettava, essendo stato lui stesso un gendarme per il passato).
Con un processo sommario fu richiuso in Castel Capuano e dovette scontare una pena di 25 anni di galera. Scontata la pena all’età di 53 anni il 29 marzo del 1890 morì a Marano.
Alfonso Cerullo, esempio di uomo leale, rispettoso del giuramento fatto al suo Re, fu per più di un secolo dimenticato, e poiché la storia, molto spesso la fanno i vincitori, fu facile per i conquistatori piemontesi (passati alla storia come i liberatori del Regno delle Due Sicilie) decretare il nostro eroe e tanti altri martiri, che si batterono contro la tirannia savoiarda per difendere la loro patria nel rispetto delle proprie idee, dei briganti malfattori, coprendoli d’ignominie




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